Uranio impoverito, lo Stato sapeva e non ha fatto niente: “I superiori mi ordinarono di tacere”
Oltre 300 morti e 7000 malati, l’uranio impoverito nel nostro paese è stato causa di una vera e propria strage di militari. L’inchiesta di Fanpage.it svela le responsabilità dei vertici militari italiani che sapevano della pericolosità dell’uranio già dal 1994. Mostriamo le minacce ai militari che hanno intrapreso le vie legali e l’assenza totale delle condizioni di sicurezza nei poligoni militari italiani.
Secondo i dati dell’Osservatorio Militare, un gruppo indipendente fatto di militari ed ex militari, i soldati morti per malattie tumorali contratte a causa dell’uranio impoverito sono 345, mentre gli ammalati sono circa 7.000. Numeri impressionanti per quella che abbia definito come una vera e propria strage. Le armi all’uranio impoverito sono state utilizzate a partire dal conflitto nei Balcani negli anni ’90 dagli eserciti appartenenti alla Nato. Un proiettile all’uranio aumenta la capacità di penetrazione nelle corazze. Una sorta di “super arma” che gli eserciti occidentali hanno dapprima testato nel conflitto nella ex Jugoslavia e poi usato nuovamente nella guerra in Afghanistan nel 2001 e nella guerra in Iraq nel 2003. Per realizzare questi proiettili vengono utilizzate le scorie di uranio che provengono dalle centrali nucleari, scorie radioattive altamente pericolose per l’uomo. I vertici militari italiani hanno sempre sostenuto che l’uranio impoverito fosse stato usato solo da eserciti stranieri e di non esserne a conoscenza. Ma il video “Warming” 1994, prodotto dal Pentagono e distribuito ai paesi Nato, in possesso di Fanpage.it, mostra come i vertici italiani già dalla metà degli anni ’90 non potevano non sapere, ma nonostante questo ai militari non sono state date le opportune protezioni per restare a contatto con la pericolosa sostanza radioattiva.
Ranger dell’esercito italiano sono un corpo speciale d’élite, Antonio Attianese, originario della provincia di Salerno era entrato a farne parte negli anni ’90. E lì nella caserma di Bolzano che conosce Carlo Chiariglione, l’amico che lo accompagnerà fino all’ultimo viaggio della vita e che ci ha raccontato la sua storia. Attianese partecipa a due missioni di guerra in Afghanistan dal 2002 in poi. Viene in contatto con armi di ogni tipo, partecipa alle esercitazioni nei poligono, viene coinvolto in missioni di guerra. Come racconta lui stesso nel video girato pochi giorni prima di morire e che la famiglia ha consegnato in esclusiva a Fanpage.it, durante le missioni si reca sui luoghi appena bombardati esponendosi alle inalazioni dei fumi delle esplosioni post combattimento. Ed è proprio l’inalazione dei fumi delle esplosioni dei proiettili all’uranio a risultare particolarmente tossica e nociva per l’uomo. Nel 2004 ad Antonio viene diagnosticato un tumore, un carcinoma vescicale, è l’inizio di un calvario che porterà il militare dapprima al congedo e poi a sottoporsi a ben 35 operazioni chirurgiche per sconfiggere la malattia e per restare in vita. Attianese non sapeva nulla dell’uranio impoverito e del rischio da contaminazione. Fu durante un ricovero che lo apprese: accanto a lui in ospedale c’era un altro militare, un ufficiale, anche lui con un tumore, anche lui aveva partecipato a missioni all’estero. Fu lui a spiegare ad Antonio l’esistenza dei proiettili all’uranio impoverito e delle “armi sporche” in generale, macchine da guerra costruite con sostanze tossiche, come ad esempio i missili Milan che contengono un sistema di puntamento a base di torio, altra sostanza chimica tossica e cancerogena. Uscito dall’ospedale Antonio chiede all’esercito il rimborso delle spese mediche che aveva sostenuto fino a quel momento, ma la risposta che riceve è una intimidazione, è il settembre del 2005. “Se ti metti in mano ad un avvocato ti facciamo terra bruciata intorno” gli dicono tre capitani suoi superiori che lo convocano in caserma dopo che Antonio ha fatto richiesta di rimborso per le spese mediche. Il Ranger quando riceve la convocazione si insospettisce e così, come lui stesso racconta, si reca all’incontro con i capitani Danieli, Diomaiuta e Crocco.
La conversazione che vi facciamo ascoltare nella nostra video inchiesta è inequivocabile.
“Noi vogliamo che il corpo non venga sputtanato” – gli dice il capitano Crocco – “facciamo tafferuglio” un termine in gergo militare per indicare uno scontro. “Io te lo voglio dire, ti facciamo terra bruciata intorno a 360 gradi, poi fai come cazzo vuoi”, parole come macigni per un militare che ha appena scoperto di essere vittima del silenzio delle istituzioni che non lo hanno protetto, lo hanno esposto alla contaminazione e ora non vogliono riconoscergli nemmeno la malattia. Antonio continuerà a lottare per la vita e per la giustizia per tutti i militari contaminati ed ammalati, e lo farà insieme a tanti amici come Carlo Chiariglione che non lo ha mai lasciato solo. Muore il 24 giugno 2017, dopo 13 anni di malattia. Ai suoi funerali, come racconta l’amico Carlo, lo Stato Maggiore dell’esercito inviò una corona di fiori ma la moglie di Antonio la rispedì al mittente con un biglietto: “Questa corona non cancella 13 anni di silenzi”.
Il buco nero dei poligoni sardi
Ma non solo le missioni di guerra all’estero erano il teatro di utilizzo delle “armi sporche”. Il poligono militare di Capo Teulada in Sardegna viene utilizzato dagli eserciti di mezzo mondo e dalle aziende produttrici di armi per testare nel nuove armi. Salvatore Donatiello, nativo della provincia di Caserta, era arruolato nell’esercito italiano ed ha preso parte a due missioni di esercitazione al poligono di Capo Teulada nel 2002. Lo scenario che racconta è inquietante: “Avevamo solo la maglietta di cotone e camminavamo sui terreni dove c’erano appena state delle esplosioni, si alzavano fumi tossici che non ci permettevano di respirare, anche se ci lavavamo quella puzza ce la portavamo addosso per giorni, era uno scenario incredibile, ci accampavamo su quei terreni, mangiavamo lì per terra senza nemmeno lavarci le mani”.
A Salvatore è stato diagnosticato un linfoma di Hodgkin di dimensioni impressionanti 14 centimetri per 7, “una specie di pallone” come lo definisce lui. Proprio il poligono di Capo Teulada è stato al centro delle indagini della Commissione parlamentare d’inchiesta sull’uranio impoverito guidata dal deputato del Pd Gianpiero Scanu nella scorsa legislatura. “Sparavamo di tutto – dice Salvatore – missili Milan, missili tomahawk”. Secondo le informazioni recuperate dalla commissione parlamentare d’inchiesta nel solo poligono di Capo Teulada sono stati sparati oltre 1800 missili Milan a base di torio. All’interno del poligono c’è una penisola interdetta. Domenico Leggiero dell’Osservatorio Militare durante una ispezione chiese di poter visitare la zona intedetta: “Sono un’ispettore NATO quindi posso visitare liberamente tutte le strutture militari, non mi è mai capitato di trovarmi in un posto e sentirmi dire che non potevo visitarlo perché era troppo inquinato” ci spiega. “Quando chiesi quanto tempo ci volesse per bonificare quell’area mi fu risposto 530 anni, fu lì che capii che c’era qualcosa che non andava a Capo Teulada”.
lo Stato sapeva
Nel 1994 il Pentagono girò un video, una vecchia VHS dal titolo “Warming 1994”. Le immagini che vi mostriamo in esclusiva ritraggono dei militari americani in un teatro di guerra simulata con uso di proiettili all’uranio impoverito. I militari hanno le tute bianche, le maschere anti gas, i guanti isolanti, circoscrivono i terreni del luogo del conflitto e li isolano con dei teli. Una voce in sottofondo in inglese spiega tutte le procedure necessarie per mettere in sicurezza i soldati ed evitare il contagio. E’ un video che è stato distribuito a tutti gli esercito dell’area NATO, compreso ovviamente quello italiano. Pertanto già dal 1994 i vertici militari italiani sapevano dei pericoli derivanti dall’uso di proiettili all’uranio impoverito, ma nonostante questo nelle successive guerra nei Balcani, in Afghanistan e in Iraq furono messe in campo le procedure di sicurezza necessarie.
Sempre nel 1994 il maresciallo della Guardia di Finanza Giuseppe Carofiglio in servizio presso l’armeria di Napoli in via Montagna Spaccata al confine con il territorio di Pozzuoli, ritrovò oltre 500 proiettili all’uranio impoverito. Al tempo al Guardia di Finanza dipendeva dall’Esercito. “Durante un’ispezione nell’armeria ritrovai queste casse con il simbolo della radioattività – racconta Carofiglio – mi preoccupai e mi procurai un contatore jaiger per capire la pericolosità di quelle casse. Quando ritornai in armerie lo strumento segnava rosso fisso, il massimo della pericolosità”. Carofiglio allertò i suoi superiori e solo dopo ripetute insistenze fu inviata una squadra dell’ARPA Lazio a fare un’ispezione nell’armeria di Napoli. “All’inizio entrarono senza protezioni, ma appena videro le casse uscirono e rientrarono poi con tute e maschere” dice Carofiglio. “Ci dissero che un solo proiettile di quelle casse tenuto sulla scrivania per un anno ci avrebbe fatto prendere il cancro”. Vi mostriamo le foto di quelle casse di proiettili ritrovate da Carofiglio, oltre al simbolo della radioattività è ben visibile il marchio di produzione: la Breda Meccanica, del gruppo Finmeccanica, un’azienda dello Stato. Questo particolare testimonierebbe che non solo i vertici militari italiani sapevano dei rischi derivanti dall’uso di armi all’uranio impoverito, ma che il nostro paese produceva i proiettili. Quelle casse furono tutte distrutte, ma non certo come rifiuti tossici radioattivi in appositi impianti. I proiettili furono sparati durante un’esercitazione da alcune navi guardiacoste della Guardia di Finanza, il G83 Macchi e il G82 Galiano. L’esercitazione ebbe luogo nello specchio di mare davanti a Gaeta, tra le isole di Ponza e Ventotene, senza alcuna protezione speciale per i militari.
Di: Antonio Musella
FONTE: http://www.fanpage.it